Tutti conoscono WhatsApp e tutti la usano. Ma sapevi quanto denaro ha investito in advertising quando era solo una startup? ZERO dollari. Ecco come ci è riuscita.
Sapevi che WhatsApp non ha mai speso un dollaro in pubblicità?
In un bigliettino firmato da Brian Acton, che risale ai primi tempi dello sviluppo dell’app, troviamo le regole che guideranno la startup negli anni. Al primo posto c’è scritto: “No Ads!”, niente pubblicità. È sempre stata questa la filosofia dei cofondatori dell’app di messaggistica (lo stesso Acton e Jan Koum), cioè creare un prodotto talmente irresistibile da non doversi pubblicizzare, perché con il passaparola sarebbero presto arrivati sugli smartphone di mezzo mondo.
Oggi, a poco più di dieci anni dalla fondazione, WhatsApp ha più di 500 milioni di utenti attivi ogni giorno e 1,5 miliardi ogni mese.

Dai buoni pasto a miliardario: storia di Jan Koum
La storia di WhatsApp è interessante e affascinante per tanti motivi. A partire dalla biografia di Jan Koum, programmatore autodidatta che arriva negli States dall’Ucraina con la mamma, dove sono costretti a chiedere i buoni pasto per tirare avanti.
Il giorno del trasferimento, nel 1992, Jan ha 16 anni e va a vivere a Mountain View, in Silicon Valley, dove più che studiare i libri di scuola (che non gli vanno troppo a genio), mette le mani su tutti i volumi sullo sviluppo di software che può permettersi: non avendo un dollaro in tasca, li compra usati per poi rivenderli quando ha finito.
Il primo lavoro che ottiene grazie a questa sua passione è in Ernest & Young, dove fa il consulente per la sicurezza informatica part-time. In questo contesto, conoscerà il suo futuro socio Brian Acton, che lavora già in Yahoo. Il giovane programmatore arriverà pochi mesi dopo alle dipendenze del motore di ricerca. Ma è un lavoro che non li soddisfa.
Decidono quindi di prendersi un anno sabbatico, girando per il Sud America. Qui Jan si rende conto di quanto sia dispendioso restare in contatto con amici e familiari all’estero. È anche molto complicato, a partire dai codici internazionali da usare per comporre i numeri dei propri contatti. Senza contare che è spesso difficile capire quando le persone possono parlare al telefono e non sono occupate al lavoro o in altre faccende.
Da queste difficoltà, arriva la prima idea di WhatsApp, ovvero un’app in cui le persone pubblicano il proprio stato attuale: “Sono libero”, “Sono occupato”, “Mi trovi tra un’ora”, per far capire ad amici e familiari se si è disponibili per una telefonata.
Whatsapp: dal flop all’exit per 22 miliardi di dollari
La prima versione è però un flop, pochissimi la usano. Almeno fino a quando Apple non farà una mossa rivoluzionaria, introducendo le notifiche push sui suoi iPhone. In questo modo, ogni volta che una persona pubblica uno stato su WhatsApp arriva una notifica sul cellulare di tutti i propri contatti.
Jan e Brian si rendono a questo punto conto che le persone cominciano a interagire tra loro attraverso gli stati. Chi scrive per esempio “Sono al cinema, chiamami tra due ore”, può ricevere una risposta del tipo “Che film hai visto?”. Nasce così l’intuizione di creare un vero e proprio servizio di messaggistica.
Il resto della storia è noto, con il grande successo planetario e la vendita di WhatsApp a Facebook per 22 miliardi di dollari, cinque anni dopo la fondazione. La firma dell’accordo avviene, per volontà di Jan, in un luogo incredibilmente simbolico: l’ex ufficio per il welfare in cui doveva restare in fila per ritirare i suoi buoni pasto.

L’odio per la pubblicità: perché “No ads”?
Come ho già raccontato, Jan Koum e Brian Acton si sono conosciuti in Yahoo!, dove entrambi lavoravano. Il loro vecchio impiego? Vendere pubblicità. Lo racconta lo stesso Jan sul blog di WhatsApp, in un post ormai datato (risale al 2012, prima ancora di vendere l’app a Facebook). Il business di molte aziende multimiliardarie della Silicon Valley (da Facebook a Google) è sempre stato quello della pubblicità: raccogliere dati sui propri utenti, per poi metterli a disposizione delle imprese, piccole o grandi, che possono così vendere i propri prodotti con offerte personalizzate per il proprio target.
Così faceva anche Yahoo!, come il competitor Google tra l’altro:
«Io e Brian – ha scritto Koum – combinando i nostri anni di servizio, abbiamo lavorato in tutto 20 anni presso Yahoo!, facendo del nostro meglio per tenere in vita il sito. Ebbene sì, lavoravamo intensamente per vendere pubblicità, perché era quello che faceva Yahoo!. Raccoglieva dati, serviva pagine e vendeva pubblicità».
Per il nuovo servizio che vogliono lanciare, l’idea di Koum e Acton è opposta: rendere WhatsApp a pagamento (ti ricordi di quando, agli inizi, pagavamo pochi euro l’anno per usarla?) e quindi non usarla per raccogliere dati sugli utenti, ma creando un servizio irresistibile per gli utenti.
Scrive ancora Koum:
«Quando tre anni fa ci siamo messi a tavolino per avviare la nostra azienda, volevamo fare qualcosa che non fosse semplicemente un altro punto di smistamento di pubblicità. Intendevamo investire il nostro tempo per creare un servizio che la gente volesse usare perché funziona, un servizio che consentisse di risparmiare soldi e che in qualche modo rendesse la vita della gente migliore. Se fossimo riusciti a fornire tutti quei servizi, sapevamo che avremmo potuto far pagare le persone. Sapevamo che potevamo fare quello che la maggior parte delle persone cerca di fare ogni giorno: evitare la pubblicità».
Ma c’è un ma
Ti starai forse chiedendo: perché un’agenzia di comunicazione, che fa quindi della pubblicità il proprio mestiere, racconta una storia come questa?
Perché c’è un’importante lezione per tutti nella scelta di Koum e Acton, che riguarda la cura del prodotto.
La strategia dei due co-fondatori, di non investire in marketing, ha funzionato perché si trattava di un servizio assolutamente innovativo. Ricorda che all’epoca della sua nascita, pagavamo ancora per gli SMS: un’app quasi gratuita di messaggistica era quindi una rivoluzione. Certo, esistevano delle alternative gratis, come Skype, che però erano un casino da utilizzare (ricordati la mail o lo username, inserisci la password con 70 caratteri speciali e così via), mentre con WhatsApp tutto girava semplicemente con il tuo numero di cellulare.
Quello che voglio dire è che, per permettersi di non spendere niente in pubblicità, Koum e Acton hanno creato un prodotto incredibilmente utile e rivoluzionario. Al punto che se un tuo amico cominciava a usarlo, non poteva fare a meno di parlartene. E così, attraverso il passaparola, WhatsApp è diventato lentamente (ma nemmeno troppo) l’app per scambiarsi messaggi più famosa al mondo.
La lezione che possiamo imparare dalla storia su WhatsApp è quindi questa:
Lavorare sul prodotto è indispensabile per crescere.
Anche se proponi un prodotto/servizio più tradizionale, l’attenzione alle esigenze dei clienti e la capacità di rispondervi con un’offerta stellare, fanno sempre la differenza. E questo vale al di là di tutto il budget pubblicitario che puoi investire. Nel 99% dei casi sono fattori indispensabili, proprio perché non tutte le aziende hanno un’offerta così rivoluzionaria come quella di WhatsApp.
Ti è piaciuta la storia di Jan Koum? L’ho raccontata in modo più approfondito su MGMT Magazine, un portale di informazione sul business per il quale Pandant è felice di collaborare. Leggila qui: Dai buoni pasto al successo: storia del programmatore autodidatta, creatore di WhatsApp